Il reato di riciclaggio nello sport

False sponsorizzazioni e finte associazioni sportive per evadere il Fisco

Le spese di sponsorizzazione sono state sempre oggetto di vaglio, contestazione e ripresa fiscale da parte degli organi ispettivi della AdE (Agenzia delle Entrate) o G.di.fin. (Guardia di Finanza).

I rilievi hanno forza nei consolidati orientamenti di molteplici sentenze della Corte di Cassazione e pronunce di molti giudici, che negli anni hanno ribadito come siano imprescindibili ì principi della inerenza ed economicità che devono caratterizzare tali spese.

I controlli nell’ambito dell’attività ispettiva contestano in primo luogo l’antieconomicità della sponsorizzazione sportiva, provando a dimostrare spesso solo con gravi indizi e presunzioni, che il costo non è correlato e quindi è esagerato rispetto ai possibili vantaggi che porterebbe o ha portato questa operazione.

Le contestazioni più comuni, infatti, sono:

  • investimenti che non hanno portato coerenti incrementi nel volume d’affari;
  • investimenti pubblicitari di valore ingente ma circoscritti ad una ristretta area o indirizzati ad un bacino di potenziali clienti di entità scarsa;
  • investimenti promozionali fatti su aree diverse da quelle di competenza dello sponsor.

In particolare è molto frequente il caso in cui un’azienda piccola media o grande che sia, ritenga utile per la propria immagine devolvere parte del proprio margine e guadagno a associazioni sportive del territorio al fine di accrescere il valore del proprio brand e nel comtempo favorire e sostenere lo sport dilettantistico e/o professionistico che sia.

Questo significa che le imprese che hanno un utile alto, possono approfittare dell’opportunità di girare parte dei propri guadagni, diventando sponsor di una società sportiva dilettantistica, abbassare la base imponibile su cui calcolare le proprie tasse e godere di quelli che possono essere i benefici di una sponsorizzazione, ovvero far girare il proprio marchio, farsi conoscere, acquisire nuovi clienti, rafforzare il brand, riducendo il proprio reddito imponibile della cifra versata alla sponsorizzata.

Tutto si gioca sul concetto di inerenza che va interpretato come una correlazione tra una spesa e l’ attività produttiva di reddito imponibile per il soggetto che la sostiene.

La valutazione da fare è verificare come vi sia tra la spesa e l’attività o beni da cui derivano ricavi, una immediata e diretta relazione che così permette di dedurre interamente la sponsorizzazione..

L’onere della prova ricade sul contribuente nei soli casi di dubbio collegamento del componente reddituale negativo con l’impresa.

Il contribuente solo nei casi di non chiara correlazione, deve provare che il costo sia inerente in termini sia qualitativi che quantitativi, predisponendo la documentazione contabile amministrativa e commerciale più utile che possa dimostrare la ragionevole esistenza della spesa e la formazione del costo sotto un profilo quantitativo (Cass. 4 aprile 2012, n. 5374).

Quando le spese sono intrinsecamente inerenti all’attività è l’amministrazione finanziaria a dover provare l’inesistenza, del predetto nesso di inerenza (Cass. 27 aprile 2012, n. 6548) d’impresa, in quanto necessarie alla produzione del reddito, o comunque fisiologicamente riconducibili alla sfera imprenditoriale (es. costi per l’acquisto di materie prime, macchinari o strumenti indispensabili a produrre certi beni o di manufatti necessari per la loro custodia).

Anche le spese di sponsorizzazione devono rispettare il principio fondamentale della deducibilità di un costo, ovvero il principio di inerenza cosi come tutte le altre spese sostenute da una qualsiasi azienda secondo l’articolo 109, 5° comma del DPR 917/86(1).

Le spese di sponsorizzazione assumono una veste dubbia in quanto a volte sono il mezzo utile a imprenditori poco onesti che in combutta con responsabili delle realtà sportive, registrano costi sovrafatturati per poi accordarsi per una restituzione in contanti di parte della somma corrisposta.

Alla luce dei vantaggi fiscali per lo sponsor ed economici per la società sportiva sponsorizzata, è risultato fin troppo semplice per molti imprenditori avventurosi capire come aggirare queste normative e trarne un vantaggio indebito.

La normativa fiscale prevede una tassazione sul 3% del loro volume d’affari delle società sportive è molto intuitivo quindi che l’agevolazione consente e facilita le sponsorizzazioni ma anche favorisce accordi, ovviamente non scritti, per consentire un facile ma illecito risparmio fiscale.

Molte società SSD (Società Sportive Dilettantistiche) si prestano in modo illecito e trattengono soltanto parte di quanto indicato nel contratto di sponsorizzazione sportiva come corrispettivo per il servizio pubblicitario reso, circa dal 10 al 20% del totale fatturato allo sponsor.

Questo modus operandi consente allo sponsor di dedurre un costo intero della sponsorizzazione che sarà realmente corrisposto in piccola percentuale.

Lo sponsor, provvede al pagamento della fattura comprensiva dell’IVA di una comunissima transazione e la società sportiva paga l’IRES sul 3% di quanto fatturato allo sponsor che crea un costo a bilancio.

Questi soggetti che definisco prenditori” più che imprenditori ottengono il duplice scopo di abbattere l’imponibile da tassare e nel contempo creano dei fondi “neri” da poter poi utilizzare, i più per “oliare” i meccanismi della loro azienda, (somme a nero ai dipendenti o appunto maestranze non assunte regolarmente) i più disonesti per distrarle a discapito dell’azienda stessa e degli eventuali soci non consenzienti.

Con alcune recenti ordinanze, la Suprema corte di Cassazione ha infatti ulteriormente sviscerato tali aspetti tra i più delicati in questa materia: l’inerenza e la qualificazione nel caso del beneficiario costituito da società e associazioni sportive dilettantistiche (Asd).

L’ordinanza 21452/2021, depositata lo scorso 27 luglio, ha ad oggetto due avvisi di accertamento, rivolti a un’impresa individuale, riguardanti l’indeducibilità delle spese di sponsorizzazione sostenute in favore di Asd, per mancanza di inerenza e per antieconomicità.

Il discrimine è il considerare le spese di sponsorizzazione costi integralmente deducibili anche quando assumono caratteristiche essenziali delle spese di rappresentanza che sono correlate da una spiccata gratuità che è una caratteristica assente nel contratto di sponsorizzazione, che è un negozio a prestazioni corrispettive.

Da un punto di vista contrattuale quindi, le sponsorizzazioni sono dei contratti che hanno come oggetto delle prestazioni corrispettive:

  • veicolazione di un marchio;
  • diffusione di un messaggio pubblicitario;
  • promozione di un prodotto o servizio dello sponsor;
  • esposizione del brand dello sponsor su maglie, striscioni e altro materiale tecnico;
  • organizzazione di eventi di promozione e presentazione dello sponsor e delle sue attività o prodotti;

Per molto tempo, fino al 2008(2), le sponsorizzazioni invece di essere ricondotte e qualificate come spese di pubblicità hanno subito le limitazioni dettate dalle spese di rappresentanza; il discrimine era tra le spese di rappresentanza e quelle di pubblicità non sull’aspetto della gratuità, ma su altri parametri che connotavano le spese di rappresentanza, come quelle dirette all’accrescimento della conoscibilità e notorietà del brand e dell’azienda, non correlato ad aspettative di aumento di ricavi, mentre le spese di pubblicità sono finalizzate ad informare l’utente cliente circa le caratteristiche e peculiarità del prodotto rispetto anche la concorrenza e quindi dirette ad incrementare le relative vendite. (Cassazione 10440/21, 25021/18 e 3087/16)(3).

L’ordinanza supera e afferma in modo molto deciso, con connotazione alla stregua di presunzione legale, sia l’inerenza che la congruità, della spesa per un importo annuo non superiore a 200mila euro, sostenuta in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni costituite da istituzioni scolastiche, nonché di associazioni sportive scolastiche che svolgono attività nei settori giovanili riconosciute dalle Federazioni sportive nazionali o da enti di promozione sportive.

La giurisprudenza della Corte e della gran parte dei giudici di merito(4) da una presunzione assoluta di inerenza e congruità nelle spese sostenute fino a 200 mila euro e qualificate come “di pubblicità” purché si possa dimostrare la specifica attività promozionale realizzata dal soggetto sponsorizzato a favore dell’immagine e dei prodotti dello sponsor (pronunce 20224/2021, 15179/2020, 14626/2020, 11797/2019, 13508/2018, 14232/2017 e tante altre).

Le considerazioni e le pronunce riferite alla interpretazione normativa dei principi della inerenza ed economicità dei costi riferite alle sponsorizzazioni hanno quindi il duplice scopo di tutelare le entrate erariali del paese Italia, ma nel contempo consentono e agevolano gli aiuti allo sport dilettantistico e professionistico, che è alimentato dal marketing pubblicitario, e che punta ad aumentare i ricavi economici delle aziende, consentendo agli atleti italiani e le loro società sportive di competere a livello internazionale fino a scalare il medagliere olimpico.

Purtroppo il mondo economico del Paese Italia ha delle ataviche problematiche economico criminali riferite al sommerso e al crimine economico, che registrano un gap che sfiora i 200 miliardi di euro annui e quindi anche il mondo dello sport ne viene inevitabilmente coinvolto. Le società e le associazioni che formano i nostri sportivi spesso peccano in trasparenza.

Un recente studio della UIF sugli illeciti fiscali tra il 2016 e il 2020 riporta come siano state state registrate segnalazioni per operazioni sospette per 593,5 milioni di euro: false sponsorizzazioni, distrazione di fondi ottenuti dalle rispettive federazioni sportive, fittizi conferimenti ai soci e trasferimenti frenetici di azioni societarie per valori al di sotto di quelli registrati nei bilanci sono i sistemi illeciti messi a punto attraverso una serie di reati fiscali e societari.
Gli schemi illeciti indicati dall’ufficio dell’Unità di Informazione Finanziaria che si occupa di acquisire informazioni riguardanti ipotesi di riciclaggio trova conferma nelle 1.752 «Sos» (Segnalazioni per operazioni sospette) giunte nell’arco di un quinquennio e nelle numerose indagini dalla Polizia Valutaria Guardia di finanza, che hanno permesso di ricostruire una rete di illeciti finanziari con anche evidenze riconducibili ad infiltrazioni della criminalità organizzata, in grado di sfruttare lo sport per riciclare denaro sporco.

Nello specifico sono stati individuati:

  • falsi aumenti di capitale con finanziamenti fittizi a stretto giro sono rientrati nelle tasche dei soci, anche attraverso aziende loro riconducibili o collegate a terzi;
  • vorticose cessioni di quote societarie, passate di mano in mano in un brevissimo lasso di tempo, registrando, però, valori delle cessioni estremamente distanti da quelli riportati in bilancio e seguendo modalità di pagamento anomale;
  • false sponsorizzazioni;
  • una «rete» di ditte individuali e società collegate ai titolari effettivi delle organizzazioni sportive, che hanno messo in atto complessi schemi finanziari apparentemente connessi a sponsorizzazioni e pagamenti di fatture;
  • Operazioni in abuso del diritto che hanno portato ad un fittizio miglioramento della situazione economica e patrimoniale delle società sportive;
  • distrazione dei fondi ricevuti dalle federazioni sportive di appartenenza;
  • finanziamenti e sponsorizzazioni da imprese operanti in ambiti territoriali distanti, con soci già oggetto di procedimenti penali per connessioni con la criminalità organizzata, alcuni dei quali hanno poi assunto cariche apicali all’interno delle stesse società sportive.

Naturalmente i proventi di tali operazioni connesse alle transazioni economico finanziarie illecite, che connotano profili penali tributari e societari, sono il presupposto alla contestazione del reato di riciclaggio per chi si presta consapevolmente a ripulire e riciclarne i proventi.

Il rischio quindi è per i soggetti rappresentanti delle società sportive di prestarsi, spinti magari dal solo scopo di favorire la propria iniziativa sportiva, a ripulire e riciclare evasione fiscale e/o proventi della criminalità organizzata, con la facile probabilità di venir coinvolti in indagini di alto profilo per reati puniti con pene edittali molto alte.


Per approfondimenti e normative, consultare i seguenti link e/o riferimenti:

(1)  “Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.

(2)  (si veda ad esempio Cassazione, 14473/2018)

(3)  «il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e spese di pubblicità va individuato negli obiettivi perseguiti, atteso che le prime sono sostenute per accrescere il prestigio della impresa senza dar luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite, se non in via mediata e indiretta attraverso il conseguente aumento della sua notorietà e immagine, mentre le seconde hanno una diretta finalità promozionale di prodotti e servizi commercializzati, mediante l’informazione ai consumatori circa l’esistenza di tali beni e servizi, unitamente all’evidenziazione e all’esaltazione delle loro caratteristiche e dell’idoneità a soddisfarne i bisogni, in modo da incrementare le relative vendite».

(4)  da ultimo, Ctr Veneto 47/02/2021)